Ghana, nel ghetto delle streghe
Ghana, nel ghetto delle streghe
“In esilio per sfuggire al rogo”
accusate di magia nera:
rischiano sevizie e torture
Fati sembra una normalissima signora anziana, bassina e magra magra. Anche un poco vezzosa, a guardare come si drappeggia il telo del colorato abito che indossa, il bel turbante giallo e la collanina azzurra che sfoggia. Come 253 compagne e 38 uomini che vivono come possono nel microscopico villaggetto di Gnani, Fati è una «strega».
Queste povere capanne sparse tra i campi, le cui mura sono costruite con terra fatta seccare al sole e il cui tetto è semplice paglia intrecciata, ospitano un gruppo di «streghe» e «maghi», accompagnati da un centinaio tra bambini e ragazze, alcune giovanissime: sono i figli, ma molto più spesso i nipotini di queste povere persone che sono diventate vittima delle credenze superstiziose del «juju», la tradizionale magia nera cui nonostante tutto continuano a credere quasi tutti gli abitanti di questa arretrata e povera regione settentrionale del Ghana, nei pressi del confine con il Togo e il Burkina Faso.
Da queste parti sono moltissimi i musulmani, gente che normalmente non sarebbe per niente tollerante nei confronti dell’idolatria. Ma nelle comunità rurali sparse in questa regione la stragrande maggioranza della gente, i più poveri, crede da sempre ai poteri misteriosi e imperscrutabili di cui chi sa come evocare le potenze maligne è in grado di servirsi per compiere malefici e causare disgrazie. Disgrazie rovinose, spesso, quando basta pochissimo per fare la differenza tra una vita poverissima e una miserabile. Muore una bestia? Qualcuno si ammala? Una capanna prende fuoco? Un bimbo si punge e la ferita si infetta? Una persona soffre di cataratta? Magia. È una strega. Che va picchiata, emarginata, a volte linciata, come è successo nel 2010 a Tema, vicino ad Accra alla settantaduenne Ama Ahima, inzuppata di kerosene e poi bruciata viva.
Fati è diventata «strega» quando si è ammalato, per poi morire, il fratello del marito. A quanto pare, un membro di quella famiglia ha sognato Fati che minacciava di morte il cognato. I compaesani la volevano linciare, lei è dovuta scappare qui a Gnani, che è una zona «purificata» con speciali riti per neutralizzare il juju e gestita da una sorta di sciamano tradizionale, il «tindana». Quello di Gnani è un pacioso quarantenne che si chiama Hasan Shane, e ci racconta il rituale per verificare se si è streghe o meno. «La persona accusata e quella che la accusa - spiega - portano dei polli che vengono sacrificati nella cerimonia. Vengono lanciati in aria, e se ricadono con la testa rivolta verso l’alto, verso il cielo, l’accusa è falsa; se è rivolta verso il basso, la persona è una strega o uno stregone». Per la verità Fati è stata giudicata innocente; ma a casa sua non c’è tornata, la gente non ci credeva e l’ha minacciata di morte. E come gli altri rifugiati di Gnani oggi sopravvive insieme ai piccoli (figli o nipotini) che vengono mandati dai familiari per dare un minimo di assistenza. Sopravvive vendendo legna da ardere, con un po’ di agricoltura, e con gli aiuti che arrivano dall’esterno. Condannata a vita all’esilio e alla miseria. Altre ricevono periodicamente assistenza dalle loro famiglie.
Questi campi, ce ne sono sei nella regione, esistono da almeno cento anni. Ma per fortuna grazie al lavoro svolto insieme ad altre associazioni da sette anni dalla branca locale della Ong ActionAid il fenomeno si è decisamente ridotto. Nel 2008, racconta Washington Nuwworkpor, uno dei responsabili della Ong, gli agglomerati poverissimi di «streghe» ospitavano circa 3.000 rifugiati; adesso sono diventati in tutto 573. E ben 38 streghe sono riuscite a superare l’ostracismo e tornare finalmente alle loro case. Per vincere questa battaglia, ActionAid ha evitato di impostare la sua campagna direttamente sul rifiuto delle superstizioni (persino gli autisti della Ong, interpellati direttamente, ammettono di credere all’esistenza di poteri soprannaturali...) ma sulla necessità di rispettare i diritti umani sanciti dalla Costituzione ghanese. Di tutte le persone, streghe comprese. Il governo, desideroso di cancellare questa macchia sull’immagine di un paese in ascesa come il Ghana - un’economia in crescita, grandi successi nella lotta alla fame e alla povertà, una democrazia stabile - aveva l’intenzione di chiudere di botto i campi. Sarebbe stato peggio per le «streghe», non avrebbero più avuto nessun posto dove stare. ActionAid ha spinto per migliorare la vita dei «rifugiati», abitativa ed alimentare, e favorirne gradualmente il reintegro nelle comunità di appartenenza.
Insomma, una battaglia che (lentamente) si sta vincendo. Perché - appunto - com’è ovvio dietro le accuse di stregoneria si nasconde ben altro: invidia sociale, come nel caso di Fati che aveva messo in piedi una piccola attività di vendita di olio di una noce locale; più in generale l’ostilità nei confronti delle donne, specie se diventano vedove o anziane, o se hanno un caratteraccio, se sono delle piantagrane, se non hanno un atteggiamento sottomesso, se non hanno avuto figli, se soffrono di malattie come la cataratta, che comporta l’accusa di essersi «mangiati gli occhi». O se non hanno più un figlio giovane che le possa proteggere e difendere dalle accuse. Si tratta di compiere un lento ma costante lavoro culturale, spiega Esther, una delle responsabili del progetto di ActionAid Ghana: sul versante esterno, ma anche per convincere le donne «streghe» a sfuggire alla prigione invisibile in cui sono chiuse. Imparando da capo a vivere, a commerciare, a parlare senza timori.